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C’è un filo sottile che attraversa i secoli. Un filo fatto di parole scritte in fretta, diari nascosti, tele lacerate dal dolore, registrazioni sussurrate, pagine autobiografiche che bruciano. È il filo delle donne che hanno raccontato la violenza prima che il mondo fosse disposto ad ascoltarla.
Le prime testimonianze non sono nate nei tribunali, né nei movimenti di piazza.
Sono nate sui letti di malattia, nei retropalchi dei teatri, nei laboratori d’arte, nei quaderni consumati.
E ogni volta, quel gesto era una rivoluzione.
Artemisia Gentileschi – che nel 1612 raccontò lo stupro subìto davanti a un tribunale che non credeva alle donne – trasformò la violenza in pittura: non una pittura che consola, ma una pittura che urla. Giuditta che decapita Oloferne non è un quadro: è una testimonianza.
Tre secoli dopo, Frida Kahlo annotava la sua vita non con parole, ma con autoritratti che sono lettere senza destinatario. Raccontava tutto: il corpo che cede, il cuore tradito, l’identità ferita.
“Dipingo me stessa perché sono ciò che conosco meglio”, scriveva.
E in quel “me stessa” c’erano milioni di donne.
Negli anni ’70, Franca Rame decise di fare la cosa più scandalosa possibile per una donna: dire la verità. Portò sul palco, in un monologo devastante, la violenza che aveva subito. Lo fece quando ancora nessuno parlava di traumi, vittimizzazione, patriarcato. Lo fece sola, sotto i riflettori, con il pubblico costretto ad ascoltare ciò da cui avrebbe voluto distogliere lo sguardo.
E poi le voci che arrivano da relazioni celebri, da quelle storie che tutti consideravano “geniali” ma che, viste da dentro, avevano ombre impossibili da ignorare. Le compagne di Pablo Picasso – Françoise Gilot e Dora Maar – raccontarono anni dopo la complessità di quelle relazioni, il controllo emotivo, la sofferenza silenziosa che si annida dietro la grandezza artistica.
Per anni non furono credute. Per anni non furono ascoltate.
Lo stesso accadde alla moglie di Renato Guttuso, Mimise Dotti: nei suoi appunti e nelle sue lettere emergono solitudini, ferite invisibili, dinamiche sottili di sopraffazione che nessuno, all’epoca, avrebbe definito “violenza psicologica”. Oggi sì.
Sono queste voci, lontane e recentissime, ad aver aperto la strada a quelle che viviamo negli ultimi decenni.
Michelle Obama, con la sua calma ferma, denuncia il meccanismo sociale che tenta di “rimpicciolire” le ambizioni delle ragazze già dalle prime età.
Oprah Winfrey, con la sua storia di abusi infantili, ha insegnato a milioni di persone che la vergogna non è mai di chi subisce.
Nadia Murad porta nel mondo l’eco della violenza estrema dell’ISIS su un intero popolo di donne.
Malala Yousafzai racconta la ferita aperta di un proiettile che voleva zittire la sua voce e che invece l’ha resa più forte.
E poi ci sono le testimonianze di donne che vivono sotto i riflettori della politica europea e internazionale.
Ursula von der Leyen che, nel famigerato sofagate, ha denunciato l’umiliazione istituzionale subita in diretta mondiale.
Giorgia Meloni che racconta pubblicamente minacce, insulti, odio di genere.
Marine Le Pen che ricorda un’aggressione giovanile rimasta per anni fuori da ogni discorso pubblico.
Donne diverse, storie diverse, paesi diversi, idee diverse.
Ma una verità identica: la violenza non distingue. Non guarda il colore politico, la religione, il ceto, l’età.
E soprattutto: la violenza non sopporta la parola.
La teme.
Ogni volta che una donna parla, qualcosa si incrina.
Qualcosa si rompe.
Qualcosa cambia.
Una campagna per ascoltare ciò che resta taciuto
A partire dal 25 novembre 2025, in occasione dei 16 Giorni di Attivismo contro la violenza di genere, Xlina – Osservatorio Permanente ha aperto un canale di ascolto, uno spazio anonimo dove chiunque può raccontare la propria storia.
Un luogo che non giudica, non classifica, non chiede prove, non chiede nomi. Chiede solo una voce.
La raccolta resterà attiva tutto l’anno, perché il dolore non segue il calendario, e il coraggio arriva quando arriva.
Si scrive così:
Una testimonianza lunga o breve, una memoria, un episodio, anche una sola frase.
Non c’è un modo giusto per raccontare: c’è solo il tuo.
Perché raccontare?
Perché non è solo un gesto privato.
È un gesto politico.
È un modo per dire: è successo, non doveva succedere, e adesso lo dico.
Ogni storia ricevuta da Xlina diventerà parte di una mappa collettiva: un report annuale con analisi, ricorrenze, criticità sistemiche e proposte concrete da portare alle istituzioni.
Le testimonianze resteranno anonime per sempre.
Nessuna identità sarà mai richiesta.
Alcune potranno essere pubblicate in forma anonimizzata, ma solo se chi scrive lo desidera.
Le storie delle donne non sono più solo del passato. Sono qui. Sono ora.
Ogni frase inviata, ogni memoria liberata, è un passo fuori dal silenzio.
E il silenzio, da sempre, è l’arma più potente della violenza.
La campagna di Xlina nasce per spezzarlo.
Per ascoltare chi non è ancora stato ascoltato.
Per dare voce a chi crede di non averne più.
Per ricordare che ogni testimonianza è una ferita, sì, ma anche un seme.
E un seme, prima o poi, diventa un cambiamento.



